ARRÊTS sur IMAGES
Chiara Bettazzi
Arrêts sur images
a cura di Saretto Cincinelli
Casa Masaccio Centro per l’Arte Contemporanea
San Giovanni Valdarno (Ar)
18 ottobre – 30 novembre 2014
Chiara Bettazzi ci accompagna in una realtà complessa e misteriosa, indagata secondo le direttive di una sua personale ars magna lucis et umbrae, fatta di trasparenze, riflessi, specularità, abbagli, gibigiane, fantasmi. La visione diventa una peripezia dell’occhio, un vedere anzi attraverso l’interporsi di una retina intrusa, di una lente parassitaria che filtra la realtà in un gioco di specchi, in un interfacciarsi di spettri.
Questa anfibologia della vista emerge in tutta la sua ricchezza nell’installazione intitolata Still life: camera obscura e studio alchemico, il dispositivo allestito da Chiara Bettazzi evoca una scena che si sovrappone a se stessa raddoppiandosi in modo lacunoso, con sempre alcunché di deficitario nelle sue sovrapposizioni simulacrali, come se, potendo magicamente duplicare la visione sul retro dell’occhio, qualcosa venisse dimenticato per strada.
Abbiamo accennato a un’aria alchemica che qui si respira: ma attraverso i colli delle ampolle e le altre ramificazioni trasparenti di questa boscaglia vetrosa non si distilla, cuoce o raffina altra essenza se non la luce stessa: di volta in volta deviata, filtrata, stirata, respinta, esaltata, negata. Lo schermo si biforca come i sentieri di Borges, e ciò che appare sul davanti si ripercuote sul retro, colto però come in contro-tempo e in contro-luce, in una sfasatura irrisolvibile tra oggetto e simulacro, tra differenza e ripetizione, tra realtà e illusione. Ma queste che vediamo, presenti o evocate, non sono semplici comparse oggettuali, cose di una specie qualunque; il loro significato non si limita alla funzione formale che assolvono nell’economia dell’installazione.
Sono, come in altre occasioni l’artista li chiama, wonder objects, fanno parte della sua collezione privata, sono evocatori di stati d’animo, si fregiano di una patina sentimentale che li investe di un potere quasi sciamanico; per cui questi juegos de luz, queste umbrae silentes che vediamo interloquire tra bagliori di vetro e isole d’oscurità si caricano di risonanze affettive e si fanno testimoni di un viaggio agli estremi limiti della memoria.
Alberto Mugnaini
La différance est donc la formation de la forme.
Ma elle est d’autre part l’être-imprimé de l’empreinte.
Jacques Derrida
Le opere proposte da Chiara Bettazzi ruotano attorno ai paradigmi indicali dell’impronta e dell’ombra. Sulla soglia della mostra Collection (2013), un singolare video che, come una sorta di diaporama, propone una sequenza di immagini statiche, ottenute posizionando degli oggetti di vetro o semitrasparenti, in gran parte di origine farmaceutica o chimica (ampolle, provette, bottiglie ecc.), appartenenti alla collezione dell’artista, sul vetro di una lavagna luminosa: ogni composizione è documentata tramite foto. L’azione resta ostinatamente confinata fuori campo, ad essere registrata dunque non è la performance o il farsi dell’immagine ma, ogni volta, unicamente, il risultato, immortalato nella sua fotografica staticità.
A rigore, dunque, non c’è alcun video: tutto ciò che è movimento/azione è posto fuori campo. A far film, per una durata di circa 40 minuti, è solo il susseguirsi di pose statiche, lo scivolare (il passaggio, il concatenamento) da un’immagine all’altra, che occasionalmente incorpora delle pause bianche. Il video che ne scaturisce non mostra gli oggetti sul vetro della lavagna luminosa ma unicamente la loro ombra proiettata su parete. “Il risultato visivo -sottolinea Bettazzi- rimane nell’ambiguità, restando in bilico fra l’apparizione dell’oggetto e il suo fantasma... Partendo dall’ambiguità di un’immagine e riproiettandolo... sul muro, l’oggetto mi regalava una nuova immagine che non era né una mera radiografia né un puro rayogramma (10), ma si manifestava davanti a me come se fosse un disegno tracciato sul muro. Questa nuova visione mi ha fatto riflettere sulla parola grafia, e sul suo significato... originario, portandomi a considerare quest’immagine luminosa e il suo legame diretto con la scrittura e quindi con l’incisione”.
Scrittura di luce: photographia e scrittura d’ombra: skiagraphia, rimandano a Plinio ed al mito di Dibutade e all’origine mitica del disegno, inteso come sottolineatura dell’ombra e cattura di ciò che presto non sarà più presente.
Gli oggetti sono protagonisti anche della serie costituita da cinque impronte su vetro che, come le proiezioni, sono state ottenute in maniera indiretta e, almeno nel primo caso, del tutto involontaria. Non si tratta infatti di oggetti toccati dal colore e poi depositati volontariamente su un supporto ma di oggetti che, utilizzati in origine per un altro scopo, sono stati appoggiati casualmente su un vetro, imprimendovi una leggera impronta, rivelatasi al momento della rimozione.
L’artista ha cercato di catturare fotograficamente questa traccia oleosa, ma la sua trasparenza sommandosi a quella del supporto rendeva difficilmente percepibile la loro restituzione fotografica. Bettazzi ha aiutato quindi l’epifania di questa sorta di immagine ready-made attraverso uno spolvero di carbone che, andando a depositarsi sulle parti umide e scivolando su quelle asciutte ha ‘rivelato’ l’immagine latente, permettendone così la cattura. Non sfuggirà il parallelo che si instaura tra questa procedura di rivelazione dell’immagine latente tramite spolvero e quella del bagno chimico della carta impressionata in camera oscura o in modo ancora più preciso, con quella della cattura delle impronte digitali. Sia nel ‘video’ Collection che in questa serie, il processo indiretto di cattura dell’immagine mostra l’interesse di Bettazzi non tanto per la qualità del risultato (la restituzione mimetica dell’oggetto, la sua somiglianza) quanto per l’evidenza del contatto, per la cattura dell’è stato, non tanto per impronta quanto per ciò che e-viene manifestandosi come impronta, il vestigio, la traccia di ciò che non c’è più: a questo riguardo torna quanto mai utile la precisazione di George Didi-Huberman tra processo e risultato dell’impronta:
“Pour qu’une empreinte de pas se produise en tant que processus, il faut que le pied s’enfonce dans la sable, que le marcheur soit là, au lieu même de la marque à laisser. Mais pour que l’empreinte apparaisse en tant que résultat, il faut aussi que le pied se soulève, se sépare du sable et s’eloigne vers d’autre empreintes à produire ailleurs; de lors, bien sur, le marcheur n’est plus là”.
Accanto ad alcune restituzioni mimetiche inequivocabili, per quanto smangiate, un centro tavola o una borsa per l’acqua calda, una bottiglia di plastica, una tazzina, un ventaglio... sui vetri di Bettazzi sussistono numerose altre tracce incerte, che a causa della volumetria dell’oggetto di partenza che rende lacunare e discontinuo il contatto con la superficie del vetro finiscono per risultare irriconoscibili. Testimoniano comunque di un avvenuto contatto e fanno comunque immagine, anche se non sappiamo di cosa: tracce-di-un-non (più presente) segni di un passaggio fantasma.
Anche in questo caso all’impronta del contatto materiale fa riscontro il suo trasporto per mezzo della luce: l’opacità del segno e la trasparenza del supporto sono impliciti messaggeri di un ulteriore raddoppiamento, quello dell’ombra: la luce attraversando la trasparenza del vetro ma trovando un ostacolo nell’opacizzazione del segno del contatto finisce per ribadire a parete, attraverso una leggera sfasatura i profili opachi lasciati dall’oggetto che, pur assente continua dunque a ossessionare la scena con la sua letterale ob-scenità.(11)
I vetri e la presenza/assenza di qualcosa sono al centro anche di Still Life, 2014 complessa installazione che si presenta come una sorta di vanitas, misurandosi, sia pur con altri mezzi, con un genere pittorico storicizzato qual è quello della natura morta, al quale rimandano innumerevoli riferimenti impliciti.
L’opera è il risultato di una specie di stratigrafia che si compone di vari passaggi:
1)una composizione di vari oggetti vitrei, un libro ed un teschio animale che si stagliano da un fondo oscuro e riposano su un piano di marmo;
2) una foto digitale della composizione, di grande qualità pittorica, assimilabile ad una natura morta seicentesca;
3) una proiezione della foto sulla stessa composizione che l’ha originata con il conseguente gioco d’ombre portate che scaturiscono dalla sovrapposizione, introducendovi una leggera sfasatura e maggiorazione di scala. Il risultato dà vita a una sorta di palinsesto, in cui campeggia un’assenza: il teschio animale che, presente in proiezione, manca al suo posto, sul tavolo accanto agli oggetti;
4) Un candeliere con tre candele accese, un violino con il suo archetto e un’ulteriore ampolla in vetro, disposti a pavimento, ai piedi del tavolo che ospita la natura morta, fuori campo rispetto ma non dello spazio dell’installazione, di cui indicano il limite, un’ulteriore soglia che separa e mette in comunicazione lo spazio dell’immagine e quello reale in cui si muove lo spettatore, configurandosi come una sorta di supplemento dell’immagine, o come un’ulteriore ipotesi di composizione in attesa di essere realizzata.
Infine un’ultima immagine, costituita dal semplice gioco delle ombre portate dagli oggetti in vetro della natura morta, è proiettata sul retro della parete che ospita l’installazione, in cui continua ad essere assente il teschio: tanto è calda e avvolta dalle ombre la foto di partenza, tanto è secca e cristallina l’ultima a tal punto da configurarsi come il rovescio della sua pittoricità, il suo disegno, una sorta di rayogramma, l’ombra come scheletro della composizione. Possiamo pensare alla inusuale collocazione di quest’ultima proiezione come ad un rimando e un’allusione alla sofferta storia della nascita del genere natura morta che, come ci ricorda Victor Stoichita, si afferma appunto come rovescio di un quadro a carattere storico o religioso.
Offrendo inaspettatamente alla visione il “retro” di una proiezione bidimensionale, tradizionalmente priva di “verso”, mostrando le ombre di oggetti cristallini che in quanto trasparenti non dispongono di una parte celata allo sguardo. L’artista realizza una sorta di dittico implicito, che invece di essere formato da proiezioni accostate spazialmente, si offrono l’una come il rovescio dell’altra. Un dittico che pare dunque riposare su una dimensione temporale più che spaziale, una temporalità che richiede una compresenza che tuttavia esclude la possibilità di una visione simultanea.
E’ proprio questa impossibile contemplazione simultanea che risuona come un implicito invito allo spettatore a tornare sui propri passi per reiterare la visione del recto dell’opera e verificare che si tratti proprio della stessa composizione, ma anche per suggerire la complessa stratificazione e l’infinità dei punti di vista che una stessa immagine può suscitare.
Arrêts sur images
di Saretto Cincinelli
Note
10\ Rayogramma secondo Man Ray o fotogramma, secondo Moholy-Nagy è un’impronta luminosa ottenuta per contatto, un’immagine fotochimica che non implica a priori né l’utilizzo di una macchina fotografica, né che l’immagine ottenuta somigli all’oggetto di cui essa è la traccia. Come sottolinea Rosalind Krauss “il fotogramma non fa che definire il limite o rendere esplicito ciò che è vero di ogni fotografia: ogni fotografia è il risultato di un’impronta fisica che è stata trasferita su una superficie sensibile mediante i riflessi della luce”.
11\ Ob-sceno letteralmente significa fuori scena.
SC17