Standby. Installation view
Chiara Bettazzi
Standby. Installation view
MAD Murate Art District
a cura di Letizia Bocci e Valentina Gensini
Ambiente
Standby. Installation view è la visione di un incontro, quello tra la poetica di Chiara Bettazzi e i depositi di due realtà culturali: Museo Galileo e MAD Murate Art District.
La ricerca condotta dall’artista, dopo un lungo periodo di contatto con entrambi gli spazi e con i relativi archivi documentali e fotografici, ha portato alla realizzazione di un intervento site-specific all’interno degli ambienti delle Murate, che ha come elemento cardine una selezione di strumenti scientifici e storici dei due depositi, raccontati e mostrati attraverso differenti modalità.
L’esposizione si presenta all’occhio come un lavoro scultoreo, che oltre ad essere espressione di un processo in divenire, è una stratificazione di studio e documentazione su entrambi i depositi, insieme a lavori passati dell’artista, in particolare gli studi sulla visione e sulla fotografia, che trovano completamento e senso in questa nuova visione.
Chiara Bettazzi ha così, progressivamente, posto l’attenzione sul concetto di ambiente, su qualcosa che andava costruendosi in termini di relazione, sia durante il lavoro nei depositi, sia all’interno della mostra, chiedendo a chi osserva di affinare lo sguardo, affinché ciò che sembra una sola moltitudine possa rivelarsi nelle proprie infinite variazioni, all’interno di un’unica “visione d’insieme”, come suggerisce il sottotitolo della mostra, sebbene suddivisa in più nuclei focali.
Frammento
Chiara Bettazzi ha fotografato la realtà che ha percepito entrando in quegli spazi attraverso l’appropriazione degli oggetti e delle immagini, con un’attenzione particolare rispetto al dettaglio e al frammento. Poiché il frammento è un dato reale che può assumere diverse sembianze e significati, la scelta delle fotografie che Chiara ha scattato e affisso alle pareti della sala è ricaduta proprio su una selezione di oggetti frammentati: strumenti chimici, contenitori farmaceutici e vetri seicenteschi dell’Accademia del Cimento, provenienti dal Museo Galileo, uniti a elementi strutturali in pietra, attraversati dal tempo e dalla storia, che trovano oggi spazio e tutela nel deposito delle Murate.
Questo sottolinea un carattere fondamentale della ricerca dell’artista che si avvicina al sentire archeologico, in cui le cose esistono nella loro storia, che deve essere esaltata piuttosto che nascosta, in un presente stratificato dal tempo in cui ogni strato è parte di un processo che lo ha portato ad esistere nella propria condizione odierna. Tale ricerca nei depositi ha permesso di riscontrare pratiche analoghe tra le necessità documentative e operative che compaiono nel lavoro dell’artista e quelle utilizzate dalle due istituzioni culturali.
Il risultato visivo è descritto da un carattere di ambivalenza, tra la rappresentazione dell’oggetto e la sua assenza fisica, come due impulsi antitetici che sussistono in un deposito: il nascondere e il ricordare. Questa condizione di presenza-assenza è connotata anche da una selezione di oggetti ottici, legati al tema della visione, provenienti dal deposito del Museo Galileo, che Chiara Bettazzi ha visionato e scelto di esporre mantenendoli ancora avvolti nei loro imballaggi, esattamente come li ha incontrati, nascosti alla vista, con lo scopo di evidenziare ciò che esiste oltre lo sguardo.
Qui il tema della visione diventa centrale, per raccontare quello che si vive entrando nel deposito e al tempo stesso per evocare la presenza di un oggetto. Quello che viene nascosto, in realtà, risalta perché immaginato, anelato. Il soggetto continua ad esistere, ma celato al nostro sguardo rivela tutto il vuoto che lascia il suo non esserci. Nel caso delle Murate i reperti lapidei sono visibili, ma cambiano di identità, non più riconoscibili come nelle foto stampate e affisse alla parete, ma ibridati con oggetti provenienti dallo studio dell’artista.
Chiara Bettazzi, Standby 2023, video 43,55 min.
Immagine
All’interno del complesso espositivo, gli strumenti scientifici ed i reperti storici perdono l’aura di oggetto musealizzato, e iniziano ad esistere al di là della loro storia, del loro tempo, diventando parte di un nuovo racconto e di un nuovo tempo, mutabile e presente, il tempo dell’immagine. Ecco che in questo senso assume significato l’aver accorpato due realtà, diverse nei loro contenuti, lontane nei loro temi, come gli strumenti scientifici transitati nelle collezioni di famiglie come Medici e Lorena, ospitati oggi da un museo di storia della scienza e da un ex monastero quattrocentesco, poi divenuto carcere dal 1883 al 1985.
Con lo sguardo di Chiara Bettazzi l’oggetto, spogliandosi del suo utilizzo, diventa necessaria materia per la creazione di un’immagine, in continua evoluzione.
Le parole “immagine” e “immaginario” hanno la stessa etimologia: derivano dal verbo “immaginare”, che significa “dare una forma esteriore alle proprie idee”. In questo senso, Chiara Bettazzi è riuscita ad attribuire la parola all’immagine3.
La sala espositiva diventa quindi un museo immaginario4, un ideale magazzino da cui poter attingere a piene mani suggestioni, idee, concetti e immagini, che, dopo essere stati estratti dal loro contesto originario, vengono montati in opere nuove: materiali lapidei, legni bruciati, oggetti ottici, assemblati in composizioni dagli equilibri perfetti, realizzate su supporti indifferentemente lignei o di pietra, cui l’artista ha conferito una dignità artistica e una naturale monumentalità. L’oggetto, prelevato dal reale e richiedente nuova attenzione, viene alterato, ibridato, riassemblato. Insieme a una nuova forma, ottiene anche un nuovo valore, attraversando un processo di risignificazione, oltre che di ricontestualizzazione, perché per Chiara Bettazzi, prima ancora dell’oggetto e del suo nome, esiste la sua essenza.
Testo - La parola all’immagine di Letizia Bocci (PDF)
SC17